La storia dell’elefante incatenato Jorge Bucay
C’erano una volta un uomo forte e vigoroso e un paletto… Potrebbe iniziare così la storia che voglio presentarti oggi. Si tratta dell’elefante incatenato di Jorge Bucay. Te la propongo perché sono fermamente convinta che quella descritta sia la situazione che ognuno di noi può sperimentare nell’arco della sua esistenza. Riflettere su questo tema, sulle convinzioni litanti che si trasformano nelle nostre catene ci aiuta a prendere consapevolezza. Un modo per iniziare a vivere e agire diversamente dal passato per essere infine liberi di essere davvero noi stessi.
Mentre proseguivo le mie ricerche e i miei studi mi sono imbattuta in un racconto speciale che mi ha colpito in profondità: la storia dell’elefante incatenato di Jorge Bucay. Te lo voglio mostrare perché credo possa essere un buono spunto di riflessione da cui iniziare il nostro lavoro di rottura degli schemi mentali che ci stanno incatenando e di avvicinamento alla nostra essenza più autentica.
Tutto ebbe inizio così:
· “Non posso” gli dissi. “Non posso!”
· “Ne sei sicuro?” mi chiese lui.
· “Sì, mi piacerebbe tanto sedermi davanti a lei e dirle quello che provo. Ma so che
non posso farlo.
Di fronte a questa invocazione d’aiuto, Bucay ci racconta che Jorge, sedutosi, guardò negli occhi il ragazzo e, a voce bassa e ferma,
gli disse: “Ti racconto una storia. Quando ero piccolo adoravo il circo e gli animali. Ero attirato in particolar modo dall’elefante.
Durante lo spettacolo quel bestione faceva sfoggio di una dimensione e una possanza davvero eccezionale. Ma dopo il suo numero, e fino a un momento prima di entrare in scena, l’elefante era sempre legato a un paletto conficcato nel suolo, con una catena che gli bloccava le zampe.
Eppure il paletto non era altro che un pezzo di legno piantato nel terreno solo per pochi centimetri e anche se la catena era robusta, pensavo che un animale in grado di sradicare un albero potesse liberarsi facilmente di quel paletto e fuggire. Ma allora, perché non scappava?
La storia dell’elefante incatenato Jorge Bucay e i paletti, i condizionamenti e la nostra vita limitata
Chiesi a mio padre e lui mi spiegò che l’elefante non scappava perché era ammaestrato. “Se è ammaestrato, perché lo incatenano?” ribattei, senza ricevere una risposta. Passò il tempo…
Poi, scoprii che qualcuno aveva trovato la risposta giusta. L’elefante del circo non scappa perché è stato legato ad un paletto simile fin da quando era molto, molto piccolo. Chiusi gli occhi e immaginai l’elefantino, legato al paletto. Di certo, in quel momento, l’elefantino provò a spingere, e tentò di liberarsi. Ma nonostante gli sforzi non ci riusciva perché quel paletto era troppo saldo per lui. Lo immaginavo addormentarsi sfinito, e il giorno dopo ritentare e poi ancora e ancora… Finché un giorno, il cucciolo accettò la sconfitta e si rassegnò.
L’elefante adulto non scappa perché, ormai, crede di non poterlo fare. Reca impresso il ricordo dell’impotenza sperimentata subito dopo la nascita. E il brutto è che non ha mai più messo alla prova la sua forza, mai più…
Anche noi viviamo pensando che “non possiamo” fare alcune cose semplicemente perché una volta, quando eravamo piccoli, ci avevamo provato e avevamo fallito. Allora abbiamo fatto come l’elefante, abbiamo inciso nella memoria questo messaggio: Non posso, non posso e non potrò mai. Così, da tempo non proviamo più a liberarci del paletto.
Quando a volte sentiamo la stretta dei ceppi e facciamo cigolare le catene, guardiamo di sbieco il paletto e pensiamo: Non posso e non potrò mai. Jorge concluse dicendo al ragazzo:
“È quello che succede anche a te, Demian. L’unico modo per sapere se puoi farcela è provare di nuovo.
Tratto liberamente “L’elefante incatenato” di Jorge Bucay*
* Jorge Bucay. Lascia che ti racconti. Storie per imparare a vivere, BUR Rizzoli Saggi
Il linguaggio e l’uscire dalle gabbie che ci limitano.
Come accade nella storia dell’elefante incatenato di Jorge Bucay, anche noi andiamo in giro per il mondo incatenati da paletti invisibili. Solo quando iniziamo ad accorgerci di questo inganno possiamo cominciare a vivere con più consapevolezza. Sarà quel seme che nel tempo inizierà a scavare dentro di noi una nuova luce, a porci interrogativi.
Dalle risposte che ci daremo e dalla nuova prospettiva che avremo fatto nostra potremo sperimentare nuove strategie. Riappropriarci della nostra responsabilità sugli atteggiamenti e provare a spezzare le catene che ci limitano da tutta la vita. Molto spesso siamo noi che ci sabotiamo e ci incateniamo in determinate situazioni, non facciamo vedere la nostra essenza e bellezza.
Non facciamo sentire la nostra voce, limitiamo le nostre scelte condizionate da paletti invisibili che ci fanno credere impossibile quello che invece sarebbe possibile fare o diventare. I nostri paletti possono anche definire la nostra identità e limitarla. Cosa facciamo?
Attiviamo un linguaggio che ci depotenzia e demotiva, e non ci permette di vedere prospettive di possibilità, il nostro potenziale, la nostra sfera di azione, i nostri comportamenti. Non ce ne rendiamo conto. Facciamo attenzione al nostro linguaggio. Quante volte abbiamo detto o sentito dire da una persona “non sono portato”?
“Non ho abbastanza capacità” o “non ho fortuna”? O ancora “la vita è difficile”, “questa sfida è troppo grande”? Pensiamo di non poter fare perché in passato ci avevamo provato e non eravamo riusciti.
Crediamo nel nostro limite, non pensando che nel tempo siamo cresciuti abbiamo fatto esperienza, acquisito abilità, conoscenze e che quello che era forse una volta impossibile, può essere oggi possibile, anche semplice, facile.
Liberiamoci dai paletti invisibili che ci fanno del male e ci ostacolano. Mettiamo in discussione le nostre convinzioni limitanti. Verifichiamole, impariamo a lavorare su noi stessi per sostituire abitudini non funzionali e ripetitive con nuovi comportamenti. Nuove strategie che ci permettono di progredire, migliorare ed esprimere il meglio di noi stessi.
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